21/06/14
sì! viaggiare
Qualche giorno fa ho scritto che un viaggio è sempre un piccolo miracolo perché ci permette di vedere posti magnifici e di riflettere su molte cose, noi stessi, i nostri rapporti, le scelte che abbiamo fatto e che dobbiamo fare.
Più aumenta la distanza fisica e mentale dal nostro modo di vivere quotidiano più riusciremo a trovare le risposte ai nostri dubbi e alle nostre domande.
Così in mezzo a qualche foto del Sinai ecco dei pensieri vagabonding
Andarsene da casa è una specie di perdono e,
quando si arriva tra sconosciuti, ci si stupisce del fatto che sembrino persone per bene.
Nessuno vi deride o spettegola su di voi, nessuno invidia i vostri successi o gode per le vostre sconfite.
Dovete ricominciare, è una specie di redenzione.
[Garrison Keillor, Leaving Home]
A volte dobbiamo fuggire nelle solitudini aperte, nell'assenza di scopi, nella vacanza morale consistente nel correre puri rischi, per affilare la lama della vita, per saggiare le difficoltà ed essere costretti a sforzarsi disperatamente, vada come vada.
[George Santayana, The Philosophy of travel]
Il piacere di viaggiare è tutto negli ostacoli, nella fatica e anche nel pericolo. Che fascino possiamo trovare in un'escursione in cui siamo sempre sicuri di raggiungere la meta, di avere i cavalli che ci aspettano, un letto morbido, un'ottima cena e tutti gli agi e le comodità di cui possiamo godere anche a casa nostra?
Una delle grandi disgrazie della vita moderna è la mancanza di soprese e l'assenza di avventure. Tutto è così ben organizzato.
[Théophile Gautier, Espana]
Spesso sento che vado in zone lontane del mondo solo per ricordarmi chi sono... Quando ci si priva del proprio ambiente, degli amici, delle abitudini quotidiane, del frigorifero pieno di cibo, dell'armadio pieno di abiti, si è costretti a vivere un'esperienza diretta che, inevitabilmente, vi fa capire chi veramente sta facendo quella esperienza. Non è sempre comodo, ma rinvigorisce sempre.
[Michael Crichton, Viaggi]
07/02/14
Dell'abilitazione e di altre oppressioni
Questo è un post che volevo scrivere da un po' di settimane. Poi come si sa a volte ci sono delle priorità che si impongono. In realtà c'è anche la questione che non è un post facile. Ma voglio semplificarlo perché sia comprensibile.
Ho iniziato a pensarci quando sono usciti i risultati dell'abilitazione nazionale alla ricerca.
Io faccio la ricercatrice. Quando devo compilare dei moduli mi definisco così.
Perché per me è il lavoro più bello del mondo e voglio condividerlo il più possibile.
Mi sono chiesta quindi quando ho visto i risultati di alcune categorie cosa significhi farsi abilitare. Che secondo chi giudica possiamo essere capaci o no? e quali sono i parametri con cui giudicano? dottorati e altri titoli, pubblicazioni nazionali e internazionali, importanza dei contenuti.
Tutti parametri validi, per carità. Ma si sa, e lo sa benissimo chi fa ricerca, che in questi parametri non ci può essere meritocrazia, non c'è oggettività. I parametri sono il risultato di una serie di strutturazioni culturali che fanno dire che chi ha un titolo più alto vale di più, che chi pubblica fa più ricerca, che chi è riconosciuto a livello internazionale ha più meriti.
E allora mi chiedo perché continuare a perpetuare queste oppressioni? Perché le persone non si ribellano, avendo gli strumenti culturali per farlo?
Chi mi ha deluso di più in questo caso sono alcune donne che conosco. Donne che si definiscono femministe, che fanno ricerca di studi di genere, glbtqi e altro. Che senso ha nei libri, nelle conferenze, nei convegni e nei dibattiti citare Virginia Woolf e la sua assenza dalle sfilate degli uomini colti e Carla Lonzi e la sua assenza dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile?
C'è da riflettere su cosa diciamo rispetto a come agiamo. Solo quando sappiamo andare oltre il riconoscimento degli altri, il nostro ego e il nostro narcisismo possiamo veramente costruire un mondo meno opprimente anche all'interno del mondo della ricerca.
I parametri poi sono assurdi: fare continuamente attività di ricerca, pubblicazione e insegnamento significa eliminare completamente tutto il resto, la socializzazione, il tempo libero e le relazioni. La ricerca invece per essere efficace e non mero trastullo deve inserirsi nella nostra vita, plasmare i nsotri sensi, le nostre amicizie, il rapporto con gli altri, le altre e il mondo!!!
Ho iniziato a pensarci quando sono usciti i risultati dell'abilitazione nazionale alla ricerca.
Io faccio la ricercatrice. Quando devo compilare dei moduli mi definisco così.
Perché per me è il lavoro più bello del mondo e voglio condividerlo il più possibile.
Mi sono chiesta quindi quando ho visto i risultati di alcune categorie cosa significhi farsi abilitare. Che secondo chi giudica possiamo essere capaci o no? e quali sono i parametri con cui giudicano? dottorati e altri titoli, pubblicazioni nazionali e internazionali, importanza dei contenuti.
Tutti parametri validi, per carità. Ma si sa, e lo sa benissimo chi fa ricerca, che in questi parametri non ci può essere meritocrazia, non c'è oggettività. I parametri sono il risultato di una serie di strutturazioni culturali che fanno dire che chi ha un titolo più alto vale di più, che chi pubblica fa più ricerca, che chi è riconosciuto a livello internazionale ha più meriti.
E allora mi chiedo perché continuare a perpetuare queste oppressioni? Perché le persone non si ribellano, avendo gli strumenti culturali per farlo?
Chi mi ha deluso di più in questo caso sono alcune donne che conosco. Donne che si definiscono femministe, che fanno ricerca di studi di genere, glbtqi e altro. Che senso ha nei libri, nelle conferenze, nei convegni e nei dibattiti citare Virginia Woolf e la sua assenza dalle sfilate degli uomini colti e Carla Lonzi e la sua assenza dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile?
C'è da riflettere su cosa diciamo rispetto a come agiamo. Solo quando sappiamo andare oltre il riconoscimento degli altri, il nostro ego e il nostro narcisismo possiamo veramente costruire un mondo meno opprimente anche all'interno del mondo della ricerca.
I parametri poi sono assurdi: fare continuamente attività di ricerca, pubblicazione e insegnamento significa eliminare completamente tutto il resto, la socializzazione, il tempo libero e le relazioni. La ricerca invece per essere efficace e non mero trastullo deve inserirsi nella nostra vita, plasmare i nsotri sensi, le nostre amicizie, il rapporto con gli altri, le altre e il mondo!!!
17/12/13
Attenzione
Siamo quasi a Natale. La religione cattolica ci insegna che questo è un periodo di attesa.
Il consumismo che tutto il tempo a disposizione lo dobbiamo dedicare ai regali.
Entrambi (religione cattolica e consumismo) chiedono la nostra attenzione.
Così mi sono tornare alla mente alcune frasi lette in uno dei libri più preziosi che conosca, Gli imperdonabili di Cristina Campo.
" L'attenzione è il solo cammino verso l'inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero.
Davanti alla realtà l'immaginazione indietreggia. L'attenzione la penetra invece, direttamente come simbolo. Essa è dunque, alla fine, la forma più legittima, assoluta d'immaginazione.
Come il gigante dalla bottiglia, dall'immagine l'attenzione libera l'idea, poi di nuovo raccoglie l'idea dentro l'immagine.
Souffrir pour quelque chose c'est lui avoir accordé une attention extreme. E avere accordato a qualcosa un'attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l'attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l'intesa fra gli esseri, l'opposizione al male. Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione.
Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all'equivoco dell'immaginazione, alla pigrizia dell'abitudine, all'ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.
E' chiedergli qualcosa molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione".
Se tutti gli errori che facciamo sono dovuti alla disattenzione, facciamo meno cose, facciamole meglio. Questo è uno dei miei propositi per il 2014 !!!
Il consumismo che tutto il tempo a disposizione lo dobbiamo dedicare ai regali.
Entrambi (religione cattolica e consumismo) chiedono la nostra attenzione.
Così mi sono tornare alla mente alcune frasi lette in uno dei libri più preziosi che conosca, Gli imperdonabili di Cristina Campo.
" L'attenzione è il solo cammino verso l'inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero.
Davanti alla realtà l'immaginazione indietreggia. L'attenzione la penetra invece, direttamente come simbolo. Essa è dunque, alla fine, la forma più legittima, assoluta d'immaginazione.
Come il gigante dalla bottiglia, dall'immagine l'attenzione libera l'idea, poi di nuovo raccoglie l'idea dentro l'immagine.
Souffrir pour quelque chose c'est lui avoir accordé une attention extreme. E avere accordato a qualcosa un'attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l'attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l'intesa fra gli esseri, l'opposizione al male. Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione.
Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all'equivoco dell'immaginazione, alla pigrizia dell'abitudine, all'ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.
E' chiedergli qualcosa molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione".
Se tutti gli errori che facciamo sono dovuti alla disattenzione, facciamo meno cose, facciamole meglio. Questo è uno dei miei propositi per il 2014 !!!
12/12/13
Sradicamento
Ho appena finito una riunione piuttosto pesante dal punto di vista emotivo.
Mi ripeto sempre che devo mettere da parte il mio senso di giustizia a volte, ma è troppo difficile. E così, per dare il giusto spazio anche a questa esigenza (e anche un po' per sfogo) mi rifugio nelle parole di Simone Weil a proposito di soldi e salario
Esiste una condizione sociale - il salariato - completamente e perpetuamente legata al danaro, soprattutto da quando il salario a cottimo costringe ogni operaio ad essere sempre teso mentalmene alla busta paga.
Il secondo fattore di sradicamente è l'istruzione quale è concepita al giorno d'oggi.
Quello che oggi vien detto "istruire le masse" significa prendere questa cultura moderna, elaborata in un ambiente così chiuso, così guasto, così indifferente alla verità, toglierne tutto quel poco che per avventura potesse ancora contenere (operazione questa che viene chiamata volgarizzazione) e far penetrare pari pari quel che residua entro la memoria degli sciagurati desiderosi di apprendere, come si dà il becchime agli uccelli.
Sul giovane scolaro gli esami hanno il medesimo potere ossessivo che ha il danaro sull'operaio che lavora a cottimo. Un sistema sociale è profondamente tarato quando un contadino lavora la terra pensando che, se fa il contadino, lo fa perché non era abbastanza intelligente per diventare maestro.
Lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un'inerzia dell'anima quasi pari alla morte (come la maggior parte degli schiavi dell'impero romano) o gettarsi in un'attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi coloro che non lo sono ancora o che lo sono solo in parte.
Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica.
[da La prima radice]
Grazie Simone per la tua lucidità! Ce ne fosse ancora anche oggi intorno a noi ...
Mi ripeto sempre che devo mettere da parte il mio senso di giustizia a volte, ma è troppo difficile. E così, per dare il giusto spazio anche a questa esigenza (e anche un po' per sfogo) mi rifugio nelle parole di Simone Weil a proposito di soldi e salario
Esiste una condizione sociale - il salariato - completamente e perpetuamente legata al danaro, soprattutto da quando il salario a cottimo costringe ogni operaio ad essere sempre teso mentalmene alla busta paga.
Il secondo fattore di sradicamente è l'istruzione quale è concepita al giorno d'oggi.
Quello che oggi vien detto "istruire le masse" significa prendere questa cultura moderna, elaborata in un ambiente così chiuso, così guasto, così indifferente alla verità, toglierne tutto quel poco che per avventura potesse ancora contenere (operazione questa che viene chiamata volgarizzazione) e far penetrare pari pari quel che residua entro la memoria degli sciagurati desiderosi di apprendere, come si dà il becchime agli uccelli.
Sul giovane scolaro gli esami hanno il medesimo potere ossessivo che ha il danaro sull'operaio che lavora a cottimo. Un sistema sociale è profondamente tarato quando un contadino lavora la terra pensando che, se fa il contadino, lo fa perché non era abbastanza intelligente per diventare maestro.
Lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un'inerzia dell'anima quasi pari alla morte (come la maggior parte degli schiavi dell'impero romano) o gettarsi in un'attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi coloro che non lo sono ancora o che lo sono solo in parte.
Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica.
[da La prima radice]
Grazie Simone per la tua lucidità! Ce ne fosse ancora anche oggi intorno a noi ...
10/12/13
Beni Comuni (a proposito di alberi, città e ribellioni)
L'altro giorno ho letto su internet questa lettera scritta da Piera Colonna, cittadina torinese.
Egregio Signor Sindaco,
premesso che abito in Borgo San Paolo da quarantacinque anni, che ho portato mio figlio a giocare nel Giardino Artiglieri di Montagna da quando è stato aperto al pubblico nel 1973, che ho seguito il processo a Renato Curcio celebrato nelle sale della vecchia caserma, che ho frequentato la biblioteca istituita nelle stesse sale dopo il processo, che ho portato i miei cani nell’area apposita da quando è stata creata, che ho visto piantare al posto di alte acacie delle piccole querce che poi sono diventate grandi, che ho visto fare e disfare zolle erbose e subito dopo con un po’ di malumore recintare una parte del giardino ed abbattere alberi secola ri per fare un campo di calcio, che con molto disappunto ho visto abbattere dopo pochi anni questa struttura per erigerne un’altra molto più vasta e devastante e costosa, che ho visto centinaia di ragazzini correre su prati di plastica, che quando nevica vedo montagne di detriti di questa plastica gettati insieme alla neve spalata dai prati di plastica sui residui prati veri, che ho visto sorgere e demolire le baracche per gli operai e tecnici che costruivano la metropolitana, e infine che al loro posto quest’anno con un poì di sollievo ho visto mettere a dimora piantine nuove e giochi per bambini, premesso tutto questo, dicevo, ho trovato sul sito del Comune di Torino questa pagina http://www.comune.torino.it/comune vende, che dice che il giorno 30 dicembre prossimo l’area sarà venduta con asta pubblica.
Vorrei ricordarLe che le aree verdi appartengono a tutti i cittadini e sono inalienabili in quanto necessarie per il bene comune, lo stesso bene comune per il quale ha combattuto Suo Padre ed è morto Suo Nonno. Vorrei ricordarLe che un albero di cento anni è un monumento alla Vita e che è ridicolo pensare di sostituirlo con un alberello da vivaio e che il “verde su soletta” non ne è che un pallido simulacro.
Vorrei ricordarLe che in un luogo dove molte generazioni di persone hanno vissuto e sofferto esiste un “genius loci” che non può essere calpestato per un pugno di soldi. Vorrei ricordarLe che una buona Amministrazione programma le spese in modo avve duto e che il fare e disfare costa molti sacrifici alla comunità.
Da ultimo comunico che, per salvare tutti quegli alberi che si vedono nella foto, sono disposta a fare lo sciopero della fame oppure a installarmici sopra, come fanno gli operai sulle gru, e a resistere ad oltranza fino a quando non saranno graziati.
Con stima
Piera Colonna
Togliendo il "con stima" che proprio non sopporto più questo rivolgersi con metodi politicamente corretti a dei corrotti e aggiungendo la genealogia femminile, ossia la madre e la nonna di Fassino che avranno combattuto alla stregua del padre e del nonno per i beni comuni, voglio aggiungere una citazione presa da un verbale del consiglio comunale di Torino. Questo per spiegare a Fassino e non solo cosa è veramente la politica e la tutela del benessere degli abitanti di una città.
Una delle conseguenze positive del fare ricerca storica è quella di trovare affinità e differenze e portarle a conoscenza delle persone che ci leggono in modo da contribuire alla loro presa di coscienza e aiutarli a decostruire e ricostruire il concetto di bene comune e di benessere plasmato da decenni di capitalismo e mentalità individualista spietata.
L'intervento risale al 1974 ed ha per oggetto il concetto di casa come diritto inalienabile. E la pianificazione urbanistica della città ne è uan conseguenza diretta:
Al Sindaco di Torino Dr. Piero Fassino.
Egregio Signor Sindaco,
premesso che abito in Borgo San Paolo da quarantacinque anni, che ho portato mio figlio a giocare nel Giardino Artiglieri di Montagna da quando è stato aperto al pubblico nel 1973, che ho seguito il processo a Renato Curcio celebrato nelle sale della vecchia caserma, che ho frequentato la biblioteca istituita nelle stesse sale dopo il processo, che ho portato i miei cani nell’area apposita da quando è stata creata, che ho visto piantare al posto di alte acacie delle piccole querce che poi sono diventate grandi, che ho visto fare e disfare zolle erbose e subito dopo con un po’ di malumore recintare una parte del giardino ed abbattere alberi secola ri per fare un campo di calcio, che con molto disappunto ho visto abbattere dopo pochi anni questa struttura per erigerne un’altra molto più vasta e devastante e costosa, che ho visto centinaia di ragazzini correre su prati di plastica, che quando nevica vedo montagne di detriti di questa plastica gettati insieme alla neve spalata dai prati di plastica sui residui prati veri, che ho visto sorgere e demolire le baracche per gli operai e tecnici che costruivano la metropolitana, e infine che al loro posto quest’anno con un poì di sollievo ho visto mettere a dimora piantine nuove e giochi per bambini, premesso tutto questo, dicevo, ho trovato sul sito del Comune di Torino questa pagina http://www.comune.torino.it/comune vende, che dice che il giorno 30 dicembre prossimo l’area sarà venduta con asta pubblica.
Vorrei ricordarLe che le aree verdi appartengono a tutti i cittadini e sono inalienabili in quanto necessarie per il bene comune, lo stesso bene comune per il quale ha combattuto Suo Padre ed è morto Suo Nonno. Vorrei ricordarLe che un albero di cento anni è un monumento alla Vita e che è ridicolo pensare di sostituirlo con un alberello da vivaio e che il “verde su soletta” non ne è che un pallido simulacro.
Vorrei ricordarLe che in un luogo dove molte generazioni di persone hanno vissuto e sofferto esiste un “genius loci” che non può essere calpestato per un pugno di soldi. Vorrei ricordarLe che una buona Amministrazione programma le spese in modo avve duto e che il fare e disfare costa molti sacrifici alla comunità.
Da ultimo comunico che, per salvare tutti quegli alberi che si vedono nella foto, sono disposta a fare lo sciopero della fame oppure a installarmici sopra, come fanno gli operai sulle gru, e a resistere ad oltranza fino a quando non saranno graziati.
Con stima
Piera Colonna
Togliendo il "con stima" che proprio non sopporto più questo rivolgersi con metodi politicamente corretti a dei corrotti e aggiungendo la genealogia femminile, ossia la madre e la nonna di Fassino che avranno combattuto alla stregua del padre e del nonno per i beni comuni, voglio aggiungere una citazione presa da un verbale del consiglio comunale di Torino. Questo per spiegare a Fassino e non solo cosa è veramente la politica e la tutela del benessere degli abitanti di una città.
Una delle conseguenze positive del fare ricerca storica è quella di trovare affinità e differenze e portarle a conoscenza delle persone che ci leggono in modo da contribuire alla loro presa di coscienza e aiutarli a decostruire e ricostruire il concetto di bene comune e di benessere plasmato da decenni di capitalismo e mentalità individualista spietata.
L'intervento risale al 1974 ed ha per oggetto il concetto di casa come diritto inalienabile. E la pianificazione urbanistica della città ne è uan conseguenza diretta:
“Quartieri cittadini
come la Falchera e, per altro verso le Vallette, insediamenti come
quelli di corso Grosseto, chiamato la muraglia cinese, sono esempi di
una tipologia urbanistica che ha le più gravi ripercussioni sui
processi di socializzazione e di acculturamento dei residenti, oltre
a recare loro gravi disagi e danni nelle ore di avvio al lavoro e nel
successivo periodo di cosiddetto tempo libero, gravemente decurtato e
deteriorato dalla fatica di percorsi talvolta assai lunghi e scomodi
per portarsi alla fabbrica e alla casa. L'isolamento di questi
cittadini è uno strumento che tende alla loro depoliticizzazione,
legandoli a esigenze elementari, ed estraniandoli da informazioni,
contatti, possibilità di partecipazione a iniziative pubbliche di
più largo raggio che non siano quelle strettamente locali e
familiari. […] Resta reale il fato che la periferia isola i
cittadini in misura direttamente proporzionale alla carenza di
infrastrutture e di comodità esistenti distribuendo diversamente le
opportunità di esistenza, creando squilibri e tensioni, conservando
nella metropoli modi e stili di vita arretrati, depauperati di beni
culturali, e tali da eludere, con la falsa apparenza di un bisogno
non immediato di intervento, le azioni riparative. […] Non è
meraviglia che le sfavorevoli condizioni ambientali, l'assenza di
adeguate infrastrutture, la mancanza di servizi, favorisca
l'analfabetismo in aumento oggi a Torino e tendenze asociali. Ma
anche là dove non si hanno manifestazioni così gravi di regresso di
vita civile, la vita dei quartieri è difficile, mancando luoghi
d'incontro, biblioteche, centri sociali, canali di comunicazione;
sicché persino dove c'è fervore di incontri e di iniziative si
stenta a trovare una connessione con i problemi dell'intera
collettività e si cade talora nel corporativismo”.
L'alienazione fisica diventa alienazione psicologica e sociale.
07/11/13
Questioni di peso
Dopo la parentesi australiana mi sto ributtando negli eventi torinesi.
Ieri sera presentazione del libro di Gian Enrico Rusconi, Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica, Feltrinelli 2013. Tralascio di provare a chiedermi e a rispondermi perché un professore emerito, politologo e storico arrivato a una certa età e con aria da guascone si metta a scrivere un libro di cinema perché lui non scrive di cinema, scrive un libro su due donne che in un qualche modo sono anche nel suo immaginario e non solo in quello delle Repubblica di Weimar.
Rusconi fin dall'inizio ammette di parteggiare per Marlene (Dietrich) e lo si capisce bene perché le dedica quasi tutto l'intervento. A Leni rimangono le briciole. A noi (io e mie due amiche) che pazientemente lo ascoltiamo neanche quelle.
Tuttavia, e direi per fortuna, mentre lui parla ecco la prima illuminazione della serata: la maggior parte delle donne che conosco quando parla in pubblico è agitata, emozionata, si prepara come se il giudizio del pubblico la spedisse direttamente all'inferno o in paradiso. Gli uomini no. Alcuni di loro riescono a far passare in queste presentazioni un misto di supponenza e arroganza da Superuomo. Lo si sente nel tono della voce, lo si percepisce nella comunicazione verbale e non verbale.
C'è da ragionare su questa suggestione. Le donne ora possono parlare in pubblico ma come ci stiamo davanti a una platea? riusciamo a sostenere un dibattito?
La seconda illuminazione tratta proprio di questo. Non in generale, ma di come io riesco a sostenere un dibattito. Alla discussione sul libro partecipa anche un professore di cinema dell'Università di Torino, non è un vero e proprio dibattito, perché ognuno ha la sua parte. Chi introduce, l'autore e il professore. Il professore a un certo punto dice che nel cinema americano non ci sono donne produttrici fino agli anni Quaranta. Sobbalzo sulla sedia. Ma come? Partecipo a convegni internazionali che mirano proprio a togliere dall'oblio queste donne e ora lui me le ricaccia con una superbia irritante? Sì perché l'incipit alla segnalazione della mancanza di donne è questo "le mie colleghe femministe si arrabbiano quando dico che non ci sono produttrici, ma è così, non sono io maschilista lo è l'industria del cinema" ... Un piccolo pensiero a Jessica Rabbit "Io non sono cattiva, è che mi disegnano così".
Visto che non c'è spazio per il dibattito, decido di fare le mie osservazioni fuori. Apriti o cielo. Innanzitutto mi urla contro. Ma casomai sono ignorante, non sorda. Poi la butta sul peso. Non ci sono donne di peso nella storia del cinema americano. Nessuna donna ha prodotto "Via col vento". Poi la sfida: "se riesci a trovarmi una donna così ti stacco un assegno".
E la conversazione va avanti per un quarto d'ora. Il tasto su cui lui batte è che le donne non hanno peso storicamente né nel cinema né nelle altre arti. Inutili le ricerche che ne riscoprono i profili, perché tanto non cambiano la narrazione.
Stamattina ecco l'illuminazione che ha il sapore del paradosso: come si può chiedere alle donne di avere peso simbolico, se nel contempo si offre loro un immaginario vincente di magrezza sul piano fisico?!?! Quanto il peso simbolico è legato a quello fisico? Ci può essere un conflitto tra questi due pesi? E se ci liberassimo dell'ossessione del peso e della magrezza potremmo acquistare maggior peso sul piano simbolico?
Ma poi veramente lui pensa di essere pulito? Pensa davvero che nella sua posizione di potere non può contribuire al cambiamento della narrazione del cinema? Se l'industria coeva ha escluso queste donne dal mercato perché lui le deve ricacciare nell'oblio? E poi chi lo dice che queste donne volevano produrre kolossal? Solo una mente patriarcale e capitalista, che crede a una produzione neutrae a una linea di progresso evolutiva lineare dove le donne "finalmente" stanno acquisendo pari diritti e pari opportunità e quindi possono combattere ad armi pari con gli uomini nel mercato (cinematografico).
Difficilmente si pensa che magari molte donne non hanno voglia di combattere e preferiscono fare altro. E ne godono di più. Come al solito è una questione di desiderio e di libertà.
Ieri sera presentazione del libro di Gian Enrico Rusconi, Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica, Feltrinelli 2013. Tralascio di provare a chiedermi e a rispondermi perché un professore emerito, politologo e storico arrivato a una certa età e con aria da guascone si metta a scrivere un libro di cinema perché lui non scrive di cinema, scrive un libro su due donne che in un qualche modo sono anche nel suo immaginario e non solo in quello delle Repubblica di Weimar.
Rusconi fin dall'inizio ammette di parteggiare per Marlene (Dietrich) e lo si capisce bene perché le dedica quasi tutto l'intervento. A Leni rimangono le briciole. A noi (io e mie due amiche) che pazientemente lo ascoltiamo neanche quelle.
Tuttavia, e direi per fortuna, mentre lui parla ecco la prima illuminazione della serata: la maggior parte delle donne che conosco quando parla in pubblico è agitata, emozionata, si prepara come se il giudizio del pubblico la spedisse direttamente all'inferno o in paradiso. Gli uomini no. Alcuni di loro riescono a far passare in queste presentazioni un misto di supponenza e arroganza da Superuomo. Lo si sente nel tono della voce, lo si percepisce nella comunicazione verbale e non verbale.
C'è da ragionare su questa suggestione. Le donne ora possono parlare in pubblico ma come ci stiamo davanti a una platea? riusciamo a sostenere un dibattito?
La seconda illuminazione tratta proprio di questo. Non in generale, ma di come io riesco a sostenere un dibattito. Alla discussione sul libro partecipa anche un professore di cinema dell'Università di Torino, non è un vero e proprio dibattito, perché ognuno ha la sua parte. Chi introduce, l'autore e il professore. Il professore a un certo punto dice che nel cinema americano non ci sono donne produttrici fino agli anni Quaranta. Sobbalzo sulla sedia. Ma come? Partecipo a convegni internazionali che mirano proprio a togliere dall'oblio queste donne e ora lui me le ricaccia con una superbia irritante? Sì perché l'incipit alla segnalazione della mancanza di donne è questo "le mie colleghe femministe si arrabbiano quando dico che non ci sono produttrici, ma è così, non sono io maschilista lo è l'industria del cinema" ... Un piccolo pensiero a Jessica Rabbit "Io non sono cattiva, è che mi disegnano così".
Visto che non c'è spazio per il dibattito, decido di fare le mie osservazioni fuori. Apriti o cielo. Innanzitutto mi urla contro. Ma casomai sono ignorante, non sorda. Poi la butta sul peso. Non ci sono donne di peso nella storia del cinema americano. Nessuna donna ha prodotto "Via col vento". Poi la sfida: "se riesci a trovarmi una donna così ti stacco un assegno".
E la conversazione va avanti per un quarto d'ora. Il tasto su cui lui batte è che le donne non hanno peso storicamente né nel cinema né nelle altre arti. Inutili le ricerche che ne riscoprono i profili, perché tanto non cambiano la narrazione.
Stamattina ecco l'illuminazione che ha il sapore del paradosso: come si può chiedere alle donne di avere peso simbolico, se nel contempo si offre loro un immaginario vincente di magrezza sul piano fisico?!?! Quanto il peso simbolico è legato a quello fisico? Ci può essere un conflitto tra questi due pesi? E se ci liberassimo dell'ossessione del peso e della magrezza potremmo acquistare maggior peso sul piano simbolico?
Ma poi veramente lui pensa di essere pulito? Pensa davvero che nella sua posizione di potere non può contribuire al cambiamento della narrazione del cinema? Se l'industria coeva ha escluso queste donne dal mercato perché lui le deve ricacciare nell'oblio? E poi chi lo dice che queste donne volevano produrre kolossal? Solo una mente patriarcale e capitalista, che crede a una produzione neutrae a una linea di progresso evolutiva lineare dove le donne "finalmente" stanno acquisendo pari diritti e pari opportunità e quindi possono combattere ad armi pari con gli uomini nel mercato (cinematografico).
Difficilmente si pensa che magari molte donne non hanno voglia di combattere e preferiscono fare altro. E ne godono di più. Come al solito è una questione di desiderio e di libertà.
05/11/13
Fate l'amore non fate la guerra
Ieri era la giornata delle Forze Armate.
Ha fatto molto scalpore la presa di posizione del sindaco di Messina, Renato Accorinti, il cui discorso è stato un inno alla pace. Nelle sue parole Renato ha citato il Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini "Svuotate gli arsenali fonti di morte e riempite i granai fonti di vita!" e l'articolo 11 della Costituzione Italiana dove si legge "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali [...]".
Da ieri è un susseguirsi di commenti a favore e contro il gesto.
Chi dice che non era il luogo adatto anche se condivide.
Chi disapprova.
Chi applaude al gesto e al coraggio.
Chi è indignato per il sangue dei tanti uomini e delle tante donne versato per la "nostra" difesa.
Il Ministro per la Pubblica Amministrazione e Semplificazione Gianpiero D'Alia commenta il gesto del sindaco come "provocazione demenziale e inopportuna".
Ma come si può condividere questa affermazione? Veramente inneggiare alla pace può essere una provocazione demenziale e inopportuna?
Probabilmente sì se lo si fa durante la celebrazione delle Forze Armate. Probabilmente sì se lo si fa durante una cerimonia ufficiale. Se si osa contestare l'ordine costituito. E se lo si fa da dentro quest'ordine.
Poi c'è la denigrazione del gesto. Oltre all'offesa. Pare che il sindaco si sia scordato nel suo gesto di tutti quei militari che muoiono nelle missioni di pace! E' un ingrato.
Ma io mi chiedo: come è possibile attuare questa inversione di pensiero? Come è possibile che la locuzione "missioni di pace" renda onorabile l'intervento armato in luoghi dotati di sovranità riconosciuta dallo Stato Italiano? Perché i militari doneranno caramelle, aiuteranno i feriti e faranno sorrisi alla popolazione ma lo fanno sempre armati fino ai denti, con le tute mimetiche e il mitra sotto il braccio!
Fino a quando si esalterà paura e violenza la maggior parte delle persone richiederà la protezione delle Forze Armate. C'è bisogno quindi di riequilibrare l'immaginario che ci circonda. Io lo faccio con il libro di una mia amica, Anna Bravo, che si intitola La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato.
Riporto un piccolo riassunto del contenuto.
È un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no.
Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
Si parla e si scrive molto di guerre, di eccidi e di violenze. È il racconto del sangue versato. Ma non saremmo qui se qualcuno non avesse lavorato per risparmiare il sangue. Le storie raccontate nel libro mostrano due verità. La prima: il sangue può essere risparmiato anche da chi non ha potere, o ha un potere minimo. La seconda: se è importante raccontare una guerra, ancora più importante è descrivere come un conflitto non è deflagrato. Per capire come si può fare, e con che mezzi.
Questo è un modo diverso di fare la storia. E di raccontarla.
Ha fatto molto scalpore la presa di posizione del sindaco di Messina, Renato Accorinti, il cui discorso è stato un inno alla pace. Nelle sue parole Renato ha citato il Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini "Svuotate gli arsenali fonti di morte e riempite i granai fonti di vita!" e l'articolo 11 della Costituzione Italiana dove si legge "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali [...]".
Da ieri è un susseguirsi di commenti a favore e contro il gesto.
Chi dice che non era il luogo adatto anche se condivide.
Chi disapprova.
Chi applaude al gesto e al coraggio.
Chi è indignato per il sangue dei tanti uomini e delle tante donne versato per la "nostra" difesa.
Il Ministro per la Pubblica Amministrazione e Semplificazione Gianpiero D'Alia commenta il gesto del sindaco come "provocazione demenziale e inopportuna".
Ma come si può condividere questa affermazione? Veramente inneggiare alla pace può essere una provocazione demenziale e inopportuna?
Probabilmente sì se lo si fa durante la celebrazione delle Forze Armate. Probabilmente sì se lo si fa durante una cerimonia ufficiale. Se si osa contestare l'ordine costituito. E se lo si fa da dentro quest'ordine.
Poi c'è la denigrazione del gesto. Oltre all'offesa. Pare che il sindaco si sia scordato nel suo gesto di tutti quei militari che muoiono nelle missioni di pace! E' un ingrato.
Ma io mi chiedo: come è possibile attuare questa inversione di pensiero? Come è possibile che la locuzione "missioni di pace" renda onorabile l'intervento armato in luoghi dotati di sovranità riconosciuta dallo Stato Italiano? Perché i militari doneranno caramelle, aiuteranno i feriti e faranno sorrisi alla popolazione ma lo fanno sempre armati fino ai denti, con le tute mimetiche e il mitra sotto il braccio!
Fino a quando si esalterà paura e violenza la maggior parte delle persone richiederà la protezione delle Forze Armate. C'è bisogno quindi di riequilibrare l'immaginario che ci circonda. Io lo faccio con il libro di una mia amica, Anna Bravo, che si intitola La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato.
Riporto un piccolo riassunto del contenuto.
È un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no.
Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
Si parla e si scrive molto di guerre, di eccidi e di violenze. È il racconto del sangue versato. Ma non saremmo qui se qualcuno non avesse lavorato per risparmiare il sangue. Le storie raccontate nel libro mostrano due verità. La prima: il sangue può essere risparmiato anche da chi non ha potere, o ha un potere minimo. La seconda: se è importante raccontare una guerra, ancora più importante è descrivere come un conflitto non è deflagrato. Per capire come si può fare, e con che mezzi.
Questo è un modo diverso di fare la storia. E di raccontarla.
28/10/13
Pulizie di primavera
Ieri sono tornata da un viaggio in Australia lungo un mese.
Un viaggio in cui sono riuscita a mischiare lavoro e vacanza.
Un viaggio in cui per molto tempo sono stata da sola e da sola me lo sono costruita.
La prima cosa che ho pensato dopo aver svuotato lo zaino è stata: ne approfitto per fare il cambio degli armadi - che ormai è giunto il momento di mettere nei cassetti gli abitini estivi.
La seconda è stata: approfittiamo di questo momento di grazia creato dal viaggio per sbarazzarmi degli abiti che non metto più, quelli regalati e mai piaciuti, poco indossati, ormai inutili.
Lo stato di grazia creato dal viaggio con lo zaino in spalla è fondamentale: in quei momenti ti accorgi di quante cose superflue e inutili ci circondiamo.
Queste cose rendono pesanti e difficoltosi i nostri passi nel mondo.
Giunge il momento perciò di rimetterle in circolo e per noi di muoverci in modo più leggero, senza quegli impedimenti che molto spesso sono prima fisici e poi mentali.
Nel libro Vagabonding c'è questo elenco:
- una guida
- un paio di sandali
- articoli per l'igiene personale
- qualche medicinale essenziale
- crema protettiva
- tappi per le orecchie
- qualche piccolo regalo
- qualche cambio di vestiti semplici e funzionali
- un vestito elegante per le occasioni formali
- un coltello da tasca
- una torcia
- occhiali da sole
- zainetto resistente
- macchina fotografica
- scarpe comode e resistenti
In poche parole: il meno possibile. Punto e basta. Non che vestiti e scarpe non mi piacciano, anzi, ma arrivano certi momenti nella vita in cui bisogna far spazio ad altro (anche ad altri vestiti e scarpe). Creare degli spazi vuoti, avere il coraggio di voltare pagina, per far entrare qualcosa di nuovo.
Il viaggio all'inizio crea le condizioni del distacco fisico, poi però quando si ritorna cerchiamo di sfruttare questo distacco sul piano mentale.
Un viaggio in cui sono riuscita a mischiare lavoro e vacanza.
Un viaggio in cui per molto tempo sono stata da sola e da sola me lo sono costruita.
La prima cosa che ho pensato dopo aver svuotato lo zaino è stata: ne approfitto per fare il cambio degli armadi - che ormai è giunto il momento di mettere nei cassetti gli abitini estivi.
La seconda è stata: approfittiamo di questo momento di grazia creato dal viaggio per sbarazzarmi degli abiti che non metto più, quelli regalati e mai piaciuti, poco indossati, ormai inutili.

Queste cose rendono pesanti e difficoltosi i nostri passi nel mondo.
Giunge il momento perciò di rimetterle in circolo e per noi di muoverci in modo più leggero, senza quegli impedimenti che molto spesso sono prima fisici e poi mentali.

- una guida
- un paio di sandali
- articoli per l'igiene personale
- qualche medicinale essenziale
- crema protettiva
- tappi per le orecchie
- qualche piccolo regalo
- qualche cambio di vestiti semplici e funzionali
- un vestito elegante per le occasioni formali
- un coltello da tasca
- una torcia
- occhiali da sole
- zainetto resistente
- macchina fotografica
- scarpe comode e resistenti
In poche parole: il meno possibile. Punto e basta. Non che vestiti e scarpe non mi piacciano, anzi, ma arrivano certi momenti nella vita in cui bisogna far spazio ad altro (anche ad altri vestiti e scarpe). Creare degli spazi vuoti, avere il coraggio di voltare pagina, per far entrare qualcosa di nuovo.
Il viaggio all'inizio crea le condizioni del distacco fisico, poi però quando si ritorna cerchiamo di sfruttare questo distacco sul piano mentale.
23/09/13
Vagabonding
Tra un paio di giorni parto per l'Australia.
La scusa del viaggio è un convegno di cinema.
La vera motivazione è mettermi alla prova ... viaggiare da sola in un contesto completamente sconosciuto.
Qualche anno fa ho comprato, su consiglio di una preziosa amica, un libro altrettanto prezioso
Vagabonding. L'arte di girare il mondo di Rolf Potts (Edizioni Ponte alle Grazie).
Ed ora eccomi qui a pensare al mio viaggio. Un mese di quasi totale libertà. Quasi perché al giorno d'oggi è veramente difficile pensare di uscire dal reticolo tecnologico che ci circonda.
Però saranno giorni da inventare, quelli dopo il convegno.
Disporrò di una libertà che apre e che intimorisce allo stesso tempo perché non si è più abituati.
Così per darmi un po' di coraggio e per condividere questa esperienza, ho pensato di inserire alcune citazioni dal libro.
La scusa del viaggio è un convegno di cinema.
La vera motivazione è mettermi alla prova ... viaggiare da sola in un contesto completamente sconosciuto.
Qualche anno fa ho comprato, su consiglio di una preziosa amica, un libro altrettanto prezioso
Vagabonding. L'arte di girare il mondo di Rolf Potts (Edizioni Ponte alle Grazie).
Ed ora eccomi qui a pensare al mio viaggio. Un mese di quasi totale libertà. Quasi perché al giorno d'oggi è veramente difficile pensare di uscire dal reticolo tecnologico che ci circonda.
Però saranno giorni da inventare, quelli dopo il convegno.
Disporrò di una libertà che apre e che intimorisce allo stesso tempo perché non si è più abituati.
Così per darmi un po' di coraggio e per condividere questa esperienza, ho pensato di inserire alcune citazioni dal libro.
Se avete costruito castelli in aria,
il vostro lavoro non sarà sprecato:
è quello il posto in cui devono stare.
E adesso metteteci sotto delle fondamenta.
Henry David Thoreau, Walden
Il vagabonding non è soltanto un rituale che include vaccinazioni e valigie da fare, ma è piuttosto la pratica costante della ricerca e dell'apprendimento, dell'affrontare paure e modificare abitudini, del coltivare un nuovo incanto per popoli e luoghi.
Viaggiare è il modo migliore
per salvare l'umanità dei luoghi,
preservandoli dall'astrazione
e dall'ideologia.
Pico Iyer, Why we travel
Il vagabonding è come un pellegrinaggio senza meta: non è una ricerca di risposte, bensì una celebrazione dell'interrogare, un abbraccio all'ambiguo e un'apertura verso tutto ciò che incrocia il nostro cammino.
24/08/13
Kintsugi o dell'arte di recuperare migliorando
Quando ero adolescente m'è capitato molto spesso di dire a delle persone "non parlarmi più per tutta la vita!" senza avere la minima idea che una vita è fatta di ore, giorni, settimane, mesi e anni. E in questo lasso di tempo le cose cambiano, i rapporti si rivedono, le situazioni si fanno e di disfano.
E' incredibile come nell'adolescenza si ha questo senso totale dell'assoluto, un'arroganza mista a ingenuità che ci permette di utilizzare termini come *mai* e *sempre*
Oggi quando litigo con qualcuno/a, quando litigo anche ferocemente, non riesco a essere così netta. C'è un senso di compassione, chiamiamolo così, che non mi permette di affondare completmente parole e gesti non preoccupandomi dei sentimenti dell'altra persona. Non so se sia meglio o peggio ma è così. Penso a chi vuole bene a questa persona, all'armonia del mondo, al karma e mi fermo.
Ma c'è una linea sottile tra il subire e il difendersi. E cerco di stare molto attenta a non oltrepassarla.
Per esempio in questo periodo ho un rapporto burrascoso con una persona che non riesco proprio a gestire. Pare che ogni cosa che faccio non vada bene e questo mi genera sofferenza. Mi genera sofferenza soprattutto il non vederci chiaro in questo rapporto perché l'altra persona sfugge, si sottrae ad un confronto.
Mi chiedo dopo mesi di tentativi è ora di chiudere, di lasciarsi tutto alle spalle, di accettare un non rapporto (che ha pure il retrogusto di sconfitta per il mio orgoglio) o di provare ancora, di lasciare degli spazi che l'altra persona possa*voglia riempire. Di lasciare il tempo necessario. Anche se non è coordinato con il mio. Lasciare che siano i suoi modi e non i miei a essere agiti ...
Insomma come al solito mille dubbi quando ci si ferma a pensare, poi ieri su facebook mi imbatto in un post che parla di Kintsugi ossia una tecnica giapponese usata nella riparazione degli oggetti.
Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello.
Effettivamente gli oggetti di queste foto sono veramente *più* belli. L'oro che ha riempito le crepe conferisce un senso di luminosità fantastico che li rende ancora più belli e sicuramente più preziosi. Ma anche per i rapporti umani può essere così?
Davvero c'è sempre la possibilità di riempire le distanze - anche quelle che ci sembrano incolmabili con dell'oro?
Davvero abbiamo sempre a disposizione tanto oro quanto ne abbiamo bisogno?
E' incredibile come nell'adolescenza si ha questo senso totale dell'assoluto, un'arroganza mista a ingenuità che ci permette di utilizzare termini come *mai* e *sempre*
Oggi quando litigo con qualcuno/a, quando litigo anche ferocemente, non riesco a essere così netta. C'è un senso di compassione, chiamiamolo così, che non mi permette di affondare completmente parole e gesti non preoccupandomi dei sentimenti dell'altra persona. Non so se sia meglio o peggio ma è così. Penso a chi vuole bene a questa persona, all'armonia del mondo, al karma e mi fermo.
Ma c'è una linea sottile tra il subire e il difendersi. E cerco di stare molto attenta a non oltrepassarla.
Per esempio in questo periodo ho un rapporto burrascoso con una persona che non riesco proprio a gestire. Pare che ogni cosa che faccio non vada bene e questo mi genera sofferenza. Mi genera sofferenza soprattutto il non vederci chiaro in questo rapporto perché l'altra persona sfugge, si sottrae ad un confronto.
Mi chiedo dopo mesi di tentativi è ora di chiudere, di lasciarsi tutto alle spalle, di accettare un non rapporto (che ha pure il retrogusto di sconfitta per il mio orgoglio) o di provare ancora, di lasciare degli spazi che l'altra persona possa*voglia riempire. Di lasciare il tempo necessario. Anche se non è coordinato con il mio. Lasciare che siano i suoi modi e non i miei a essere agiti ...
Insomma come al solito mille dubbi quando ci si ferma a pensare, poi ieri su facebook mi imbatto in un post che parla di Kintsugi ossia una tecnica giapponese usata nella riparazione degli oggetti.
Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello.
Effettivamente gli oggetti di queste foto sono veramente *più* belli. L'oro che ha riempito le crepe conferisce un senso di luminosità fantastico che li rende ancora più belli e sicuramente più preziosi. Ma anche per i rapporti umani può essere così?
Davvero c'è sempre la possibilità di riempire le distanze - anche quelle che ci sembrano incolmabili con dell'oro?
Davvero abbiamo sempre a disposizione tanto oro quanto ne abbiamo bisogno?
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