28/10/15

Nutrire il pianeta ovvero se hanno pensato che questa è nutrizione siamo spacciati!

Lunedì ho passato tutta la giornata a Rho Fiera Milano a Expo 2015. Non che smaniassi dalla voglia di andarci, ma l'ho fatto per accompagnare i miei genitori e per toccare con mano le criticità di cui tanto si è sentito parlare in questi mesi. Per provare poi, a qualche giorno di distanza, a scrivere un articolo da condividere qui.

In sintesi questo è ciò che ho visto io dell'Expo: stand architettonicamente meravigliosi con alcune soluzioni degne delle migliori archistar a livello mondiale e un lavoro di marketing e di pubblicizzazione dei vari paesi in ottica turistica. I vari stand hanno gareggiato per rendersi appetibili a una visita ma concentrando l'attenzione sull'attrazione non certo sulla logistica e sul benessere.

In un'esposizione mondiale che aspira a 20 milioni di visitatori (ossia con un calcolo approssimativo 111.000 spettatori al giorno circa su un periodo di sei mesi) ci si aspetterebbe un accurato lavoro di logistica. E invece no. Non importa che ci sia un ammasso di persone di ogni età e nazione che vagano per il decumano o si mettono in fila aspettando (sotto il sole o la pioggia) ore in attesa.

In attesa di cosa? In attesa di chi?

Pensando di fare un'Expo intelligente ho evitato tutti i padiglioni più gettonati ma mi sono ritrovata a fare due ore di coda per entrare nel padiglione del Cile. Due ore di coda per vedere due filmati di promozione turistica che avrei potuto vedere comodamente a casa e che niente hanno aggiunto a ciò che avrei potuto trovare tramite Google sul cibo in Cile.

Perché si formano le code? Certo perché ci sono molte persone. Hanno scritto che gli italiani si svegliano sempre tardi e che alla fine, pur di postare una foto con l'albero della vita, si fanno code immense. Ma non credo sia del tutto vero. Come si fa, citando l'esempio del tanto agognato Giappone, creare un percorso di 50 minuti? Come possiamo dare la possibilità di accedere alla maggior parte delle persone se il percorso è così lungo e richiede attese estenuanti? Ci si deve pensare. Bisogna capire quali sono gli obiettivi e poi lavorare intorno a essi.

Se tra i padiglioni più gettonati ci sono il Kazhakistan, gli Emirati Arabi, la Cina e il Giappone vuol dire che il tema del cibo è solo un pretesto. Chi ha mai assaggiato una ricetta del Kazhakistan? Chi non è consapevole dei problemi politici, sociali e civili che ci sono con i paesi arabi o le polemiche con la presenza dei cinesi in Italia? Eppure le persone si mettono in coda ora per vedere questi stand. Certo, un po' di questa situazione è dovuta allo spirito di emulazione, al vedere se davvero ne valeva la pena, ma sicuramente una buona ragione della visita è dovuta alla spettacolarità del padiglione e delle attrazioni presenti.

Proprio a proposito degli obiettivi, fino a ora, consapevolmente, ho lasciato da parte il tema centrale di Expo 2015 ossia il cibo. Anche qui nei mesi scorsi ho letto polemiche su polemiche rispetto ai costi del cibo, pensando che Expo fosse più una fiera di paese dove ti ingozzi e sei felice e soddisfatto. Non è così hanno scritto. Ciò che vuole passare è un messaggio critico sul consumo di cibo. E allora via di polemica con la partecipazione delle multinazionali che “nutrono loro stesse e non il pianeta”. Io di cibo ne ho trovato ben poco, negli allestimenti degli stand il cibo era presente (sotto forma di alimento o di ricette tipiche) quasi esclusivamente come richiamo turistico. Difficilmente ho trovato padiglioni che trattassero la questione cibo in modo critico.

Nei 21 padiglioni che ho visitato l'unica eccezione è stata la Francia che ha proposto un video in cui si racconta come l'agricoltura tradizionale di un contadino africano sia stata modificata dai mercati finanziari globali che lo rendono all'inizio più ricco ma lo inducono a cambiare coltivazione (dal mais al cotone) fino a quando il prezzo del cotone scende affamando lui e la sua famiglia. Video molto interessante ma che si perde nel delirio collettivo dell'esposizione. Perché alla fine Expo diventa una corsa a vedere più padiglioni possibili, una lotta contro il tempo che è figlia del consumismo che attanaglia la società capitalistica e che, per ciò che ho potuto vedere rimane modello appetibile per i cosiddetti paesi in via di sviluppo.
Mentre visitavo stand di paesi come la Costa d'Avorio e l'Angola mi chiedevo come è possibile che non ci sia nessun riferimento all'imperialismo europeo, nessun retaggio dell'asservimento economico tutt'ora in corso? Tutto cancellato, dall'esposizione turistica (paradisi terrestri, esotici) e/o dalla retorica del marketing più spinto in cui i termini si rincorrono di padiglione in padiglione facendo perdere la caratterizzazione dei vari Stati in una vera e propria globalizzazione della parola.
Tutti i paesi partecipanti all'Expo vi hanno portato la loro faccia migliore, dimenticando che il cibo è anche e soprattutto cultura e ogni società l'ha declinato in maniera differente. Questa è la scommessa che Expo 2015 ha perso dal mio punto di vista.

E se sommo le difficoltà di logistica credo che l'obiettivo espresso dal sottotitolo sia molto lontano dall'essere raggiunto. Se è questa l'idea degli organizzatori e dei partecipanti siamo messi proprio male. La mia esperienza di visitatrice è stata molto più aderente a un sistema liberistico che a un'inversione di rotta, anche se in molti stand ci sono scritte che rimandano alla crisi ambientale dei prossimi anni. Sicuramente mancano le soluzioni. I cartelli di impegno lungo il decumano sono scritti con una retorica tale che mancano totalmente la consapevolezza di ciò che ci sta accadendo e del valore che il cibo ha assunto nella società capitalistica occidentale.  

Per non essere troppo negativa condivido la foto di Dewi Sri, Dea del Riso e della Fertilità presente nello stand dell'Indonesia che mi ha riportato alla sacralità del rapporto tra gli esseri umani e la Madre Terra.





21/10/15

Farsi del bene (no, non è un'altra stupida lezione di life coaching)

In questi mesi è maturata in me una decisione profonda e importante.
I viaggi e i soggiorni a Parigi e negli Stati Uniti mi hanno permesso di mettermi alla prova e vedere alcuni dei miei limiti.
Succede un po' così: fai delle esperienze e prendi coscienza di ciò che sei.
Continui a fare le stesse esperienze ed entri nell'abitudine.
Fai esperienze diverse: emergono lati diversi di te.

E poi - magari - ti fai delle domande.
E poi - magari magari - ti dai delle risposte.
O ne tenti qualcuna attraverso la messa in pratica di decisioni che non sempre sono prese basandosi sul proprio istinto. Ma cercano di essere meditate, calibrate, rafforzate dallo scambio con altre persone.

Quando ti accorgi che c'è un mondo là fuori, pieno di opportunità e di prove, decidi di andare e vai.
Puoi anche stare nello stesso posto ma qualcosa in te è cambiato e in base a questi cambiamenti fai delle scelte.

Semplice, chiaro, limpido.

Ma la verità, la propria verità, non è sempre così ben accettata.
E allora si passa attraverso la prova degli insulti, delle provocazioni e delle calunnie.
Ma va bene. Si va avanti.
Ogni persona ha la propria verità. Ogni persona sa che cosa è meglio per lei.
E può sopportare tutto per arrivare alla propria autenticità.

C'è chi decide di vivere di illusioni.
C'è chi non ha la forza di pensarsi autonoma e allora si aggrappa a titoli e affiliazioni.
Ma c'è anche chi decide di vivere in un modo diverso e di tracciare altre vie.

Ogni generazione - io sento - ha bisogno di porsi domande sul mondo che gli è stato donato da quelle precedenti e di avere una visione critica. Proseguire sulla stessa strada, modificare il percorso, tornare indietro, fermarsi un attimo, deviare. Chissà. Abbiamo tutti un'opzione. E dobbiamo provare a realizzarla. E quello che sto cercando di fare io. Ed è ciò che auguro a tutte le persone che hanno un talento da esprimere e condividere. Nonostante la paura di buona parte del mondo che conosciamo.

19/10/15

Il discreto fascino dell'ipocrisia politica


C'è qualcos'altro da aggiungere?
Questa è la risposta da dare a chi continua - per voti e per la propria carriera - a infangare persone che hanno il desiderio di una vita migliore.
Chi può negare alle persone che hanno meno di noi (meno libertà, meno diritti, meno istruzione, meno diritti, meno possibilità) di provare a realizzare i propri desideri?

Quando ci facciamo prendere la testa e le mani da provocazioni, ricordiamoci qual è la triste verità!  

16/10/15

Quanti soldi bastano a lavare una coscienza?

Oggi ho letto questo articolo, dal titolo inquietante: "Vi racconto come ho fatto soldi a palate spacciando bufale razziste sul web". Ossia la confessione di un semi-pentito ventenne siciliano che lascia da parte le proprie aspirazioni giornalistiche per dedicarsi a creare bufale razziste, perché, si sa, il razzismo va di moda e quindi ... soldi a palate.

Ciò che mi ha colpito di questo articolo è la sensazione di superiorità che emerge dalle risposte del ragazzo. Non un minimo di pentimento e di autocritica rispetto a ciò che ha fatto perché:

- lo fanno i politici (e a loro portano voti quindi soldi)
- basta leggere le notizie con un po' di attenzione per capire che si tratta di bufale (la colpa quindi è dell'ignoranza dei lettori)
- la disoccupazione giustificava il fatto di creare notizie false sugli immigrati e fomentare l'odio sociale

Certo i social network agevolano la leggerezza nel condividere ciò che ci fa indignare. E l'indignazione a volte viene spenta attraverso la condivisione più che nel fare effettivamente qualcosa, ma è importante che ogni persona in prima persona abbia consapevolezza di cosa sta facendo.

Davvero i soldi sono in grado di lavare una coscienza? E quale è la cifra adeguata?

Un passaggio che mi ha colpito molto nell'articolo è stato questo: *Gli algoritmi dell'advertising sul web non sono programmati per riconoscere le categorie del bene e del male*. Vero! Verissimo!!!
E' per questo che non possiamo affidarci totalmente alle macchine. 
Abbiamo il libero arbitrio. Facciamolo agire. 
E questi fatti cesseranno di essere vissuti come un percorso positivo/alternativo. E la cui gravità di comportamento viene mascherata dalla disoccupazione. 

Ci manca solo che ora parta una corsa all'invito in tv a raccontare la propria storia secondo un percorso mediatico che già conosciamo e che ci basta e avanza. 

Creiamo modelli positivi. Contaminiamo l'immaginario con storie di fratellanza e sorellanza. 


15/10/15

Attendere

Aspettare si sa non piace a nessuno. 

Può darsi che in questa epoca di simultaneità dover attendere sia un'imposizione percepita come vuoto da riempire. 

Molto spesso quando viaggio porto con me un libro. Per lavoro leggo quindi è logico per me avere sempre un libro in borsa. E poi mi piace girare i fogli, prendere appunti, quindi la carta vince ancora sulla tecnologia. 

A molte persone non sfiora neppure l'idea di portare un libro con sé. Eppure la lettura è uno dei modi per accedere alla cultura e per aiutarci a migliorare. 

Così quando oggi ho letto questa notizia mi è piaciuta tantissimo e ho deciso di condividerla. Il sindaco di Grenoble ha deciso di riempire le pensile dei bus con dei distributori di racconti automatici e gratuiti lunghi tanto quanto il tempo d'attesa.  

E' un'idea meravigliosa, una buona pratica che potrebbe essere copiata e adattata in base alle varie esigenze. A volte basta così poco per migliorare la nostra vita. E sicuramente la lettura è una di queste! 

Io spero davvero che qualche amministrazione pubblica prenda spunto da questa notizia e che ci siano distributori di racconti ovunque!   


Cercare un lavoro *femminista*

In questi giorni io e il mio moroso (uso questa parola consapevolmente perché ragazzo a 37 anni non è sostenibile e compagno è un termine troppo connotato politicamente) abbiamo deciso di convivere. Tutto perfetto se non fosse che abbiamo una casa e un lavoro a 450 km di distanza.
Uno dei due si dovrà spostare. E ha deciso di farlo lui anche per sperimentare la vita di città.
Rimane sicura la casa bisogna trovare un lavoro. Io del mio, da ricercatrice, ho esplorato in questi anni le contraddizioni e le onde che ti portano ad avere borse di studio con cui ti puoi pagare vitto e alloggio a Parigi e periodi in cui pare che non stai facendo niente perché non hai un'entrata fissa.

L'entrata fissa, tuttavia, fa parte della maggior parte delle mentalità e senza un processo di decostruzione attivo e guidato può risultare bersaglio facile in un attacco da parte di chi avrà anche un'entrata fissa ma ha un animo arido e una paura folle del cambiamento.

Così stiamo cercando lavoro per lui. Ed è un percorso di illuminazione su come stiamo nel mondo, su come il sistema capitalistico ci vuole. E su come noi rispondiamo a questa domanda.

Ieri ho letto un articolo interessante di Silvia Federici a proposito dell'economia femminista.
Questo articolo parla dei principi di una visione femminista dell'economia.
Principi molto diversi rispetto a quelli delle Commissioni Pari Opportunità istituzionali che troppo spesso sono Commissioni di Pari Opportunismo in cui si pensa di spartirsi la fetta di torta del potere e non a eliminare l'oppressione maschilista che da millenni tenta di impedire altri modi di pensare e che è strettamente legata al sistema liberista e capitalista.

Alcuni stralci possono invogliare alla lettura e al pensiero. Che poi diventa pratica e cambiamento:

Se hai una vita ricca dal punto di vista emotivo, con buone relazioni sociali, non ti perdi per una camicia. Il potere magico delle cose, è un potere che si può sviluppare solo su un deserto emotivo, un deserto sociale.

Dal Movimento Femminista Internazionale lanciamo la campagna Salario per il Lavoro Domestico perché interpretiamo il salario come una macchina che provoca disuguaglianza. In primo luogo, il divario salariale ha permesso l’invisibilità del lavoro domestico, che ha provocato una serie di sfruttamento del lavoro. In secondo luogo, l’ha naturalizzato perché l’ha mitizzato e ha creato gerarchie tra “retribuito” e “non retribuito”. Attraverso queste gerarchie si è prodotto un controllo indiretto delle persone “senza salario”. Da qui, i /le salariat* diventano datori di lavoro, controllori e supervisori del lavoro non retribuito. La gerarchia non è mai neutra: è il principio dello sfruttamento.   

Trovo giusto integrare nella ricerca del lavoro per lui questi principi. Perché le nostre azioni individuali hanno un peso nel mondo e contribuiscono a dare o a togliere forza a un sistema!