15/10/12

Non sei democratica/democratico (ovvero il modo migliore per zittire chi protesta ... fino ad ora)

Sempre più spesso nei dibattiti in televisione, su facebook, nei convegni, quando qualcuna o qualcuno prendono la parola e accendono un contraddittorio si tende a usare l'espressione "non sei democratico" - "non sei democratica" cercando così di togliere alle persone la possibilità di aprire un dialogo che molto spesso è costruttivo e che permette alla platea - se c'è - di ascoltare diversi punti di vista. 

Le conseguenze di questa accusa sulla non democraticità polarizzano il dibattito: c'è chi rinfaccia la stessa non democraticità o chi si zittisce. In ogni caso si perde di vista il tema del dibattito che aveva sollevato l'intervento e chi ascolta perde l'ennesima possibilità di ragionare sull'argomento dovendo scegliere la parte da sostenere (o di giustificare la neutralità).

C'è però un aspetto su cui vorrei concentrarmi io e che molto spesso viene sottaciuto, dato per scontato, perché parrebbe che la democrazia sia la miglior modalità di governo nel nostro mondo moderno. Potete prendere questo ragionamento anche come un "omaggio" al premio Nobel per la PACE all'Unione Europea - che è addirittura peggio del premio dato qualche anno fa a Obama per ciò che potrà fare (e poi non ha fatto visto che l'imperialismo militare statunitense continua imperterrito e noi in Italia lo sappiamo bene con le basi Nato, tanto per fare un esempio).

Il concetto di democrazia nasce nell'antica Grecia. Democrazia intesa come sovranità popolare diretta: ogni cittadino aveva la possibilità di proporre e votare direttamente le leggi. Sembrerebbe un concetto di democrazia ancora più inclusivo di quello di cui disponiamo noi oggi, che ci basiamo sulla rappresentanza popolare. MA c'è un MA. Chi era considerato cittadino nell'antica Grecia? Esclusivamente chi era libero dal compito di soddisfare i bisogni umani (ciò che oggi chiamiamo "faccende domestiche"). Quindi l'esclusione dalla cittadinanza era per le donne, gli schiavi e le schiave. Gli uomini liberi fanno filosofia, teoria, politica, pensano e organizzano dalla loro alta posizione la convivenza umana. Nella Grecia classica c'è una bipartizione fondamentale dell'ordine simbolico sociale tra uomini e ambiti liberi e non liberi. Un ordine che ci accompagna ancora oggi e che deve essere decostruito per poter dare creare una società in cui ogni persona viva con agio.

Ecco perché se qualcuno o qualcuna dovesse accusarmi di non essere democratica me ne vanterei!!! 

04/10/12

Etnocentrismo o del razzismo politically correct


Facendo sempre riferimento alle discussioni del Feminist Blog Camp II di Livorno a un certo punto viene detto che “il razzismo non esiste più a differenza del maschilismo”. Per chi parlava – scusate la mancata citazione ma non mi ricordo molto bene – è molto difficile dirsi razzisti oggi perché attorno al razzismo è stato costruito un simbolico negativo e tutte le azioni perpetuate negli ultimi decenni per cambiare questo simbolico potrebbero essere adattate per superare il maschilismo e il patriarcato che ancora ci circonda.

Ma siamo veramente certe che il razzismo non esista più? Non sto parlando in assoluto, mi sto riferendo ai nostri comportamenti quotidiani. Possiamo definirci razzisti e razziste? Ne sappiamo portare il peso? O abbiamo trovato un termine, una modalità che ci metta al riparo dalle accuse di razzismo e in cui ci possiamo muovere agevolmente praticando atti quotidiani rimanendo impuniti e impunite?

Ieri mentre continuo la ricostruzione della biografia di una delle più importanti psicologhe italiane del 900 (Angiola Massucco Costa), mi sono imbattuta nelle sue ricerche sull'etnocentrismo (per dare qualche indicazione minima ci troviamo negli anni 50/60). Massucco Costa vede nell'etnocentrismo una variante moderna del razzismo. Se il razzismo si basa su differenze biologiche l'etnocentrismo fa leva sulle differenze culturali.

Grazie a questa prospettiva ci rendiamo conto di quanto siamo “razzisti” e “razziste” ogni volta che contrapponiamo partiti politici, ideologie, squadre di calcio, quartieri cittadini, gusti, usi e costumi...

Se analizziamo il linguaggio che usiamo per sostenere le nostre tesi o andare contro a quelle degli altri possiamo renderci conto di quanto la nostra supponenza nasconda un principio di razzismo che deve essere superato per vivere meglio e pensare ad un mondo in cui ogni persona trovi la propria dimensione liberandoci dall'oppressione del vincitore di turno.


03/10/12

educazione relazionale o "il piacere è mio e me lo voglio gestire io"


Lo scorso weekend sono stata a Livorno per la seconda edizione del feminist blog camp. Gli incontri dei tre giorni mi hanno aperto ancora di più gli occhi sulla potenzialità del web e dei blog, mi hanno fatto conoscere nuovi orizzonti (come l'antispecismo) e soprattutto incontrare alcuni uomini che lavorano su loro stessi e con altri (uomini e donne) per una società non sessista. Uomini che riconoscono come l'oppressione femminile sia da rimuovere per una società più libera e felice, dove tutti e tutte si possano esprime liberamente.

Per ora rimane un'intuizione da sviluppare, ma mi riprometto di lavorare sul piacere e sulle relazioni. Sempre più spesso ritorna l'idea di introdurre l'educazione sessuale nelle scuole. Ho tuttavia l'impressione che con educazione sessuale ci si fermi ai metodi contraccettivi, alle malattie sessualmente trasmissibili, forse a discorsi sull'interruzione volontaria di gravidanza. Che sono importanti, ma non inclusivi (soprattutto per il genere maschile).

Preferirei, quindi, parlare di educazione relazionale. Perché se è vero che fin dall'infanzia veniamo educati ed educate ai ruoli (vedi Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti) è altrettanto vero che un'educazione relazionale attenta al rispetto dei generi può essere di grande aiuto nel costruire relazioni soddisfacenti per entrambi.

A questo proposito voglio riportare alcune righe di un volantino che ho trovato a Livorno.

“Il responsabile della oppressione delle donne e delle violenze sessuali che subiscono non è l'esistenza della libido maschile ma proprio la legittimazione che dà la società alla sua espressione. Esiste l'approccio comune che il maschio possiede un desiderio innato troppo forte, simile alle altre esigenze corporee come mangiare e bere. Questo approccio vede il desiderio maschile come attivo. A differenza del desiderio femminile, che va percepito come debole e passivo. Secondo questo approccio, visto che gli uomini hanno un desiderio sessuale forte che “deve essere soddisfatto”, è solo naturale (e quindi anche legittimo) che lo esprimano e cerchino di sfogarsi, anche se questo significa fare del male alle donne – dopo tutto non si può fermare un bisogno del corpo. Da questo derivano fenomeni sociali come l'oggettificazione delle donne, molestie sessuali, la voglia di possedere molte donne, il consumo di sesso e/o pornografia, ecc...”

Non è molto più gratificante abbandonare l'opposizione tra desiderio attivo maschile e desiderio passivo femminile per dare vita a relazioni basate sul rispetto delle due persone come soggetti? Soggetti che hanno desideri differenti e che li giocano insieme attivamente nel loro rapporto?